Appunti di un giocatore — Parenti serpenti

Francesco Petraglia
9 min readFeb 15, 2021

Per i miei cinque lettori: inizia qui quella che vorrei diventasse una rubrica, naturalmente a cadenza irregolare. Un po’ recensione, un po’ commento critico, un po’ memorie personali: pezzi un po’ sbilenchi, a mo’ di flussi di coscienza, attorno a videogiochi di cui ho qualcosa da dire. E non potevo che cominciare da un gioco in particolare…

Gli eventi più belli della vita sono sempre inattesi, non programmati, privi di aspettative. O almeno così vale nella mia vita, e questa regola vale senza dubbio anche nel caso specifico della mia ventennale “carriera” di videogiocatore appassionato. Nelle righe che seguono vi offrirò uno dei vari esempi che confermano questa mia prospettiva.

Nel marzo 2012 non mi sarei mai aspettato di trovarmi dinanzi a un turning point fondamentale, che avrebbe per sempre stabilito uno standard irremovibile nei miei gusti in fatto di videogiochi. Come sempre accadeva in quegli anni, tutto è cominciato dalle pagine della mia amata e sempre compianta NRU, “Nintendo la Rivista Ufficiale”, unico faro per un giovanissimo “nintendaro” non ancora molto smaliziato nella consultazione del mondo online, e che si lasciava guidare nei suoi soppesati acquisti esclusivamente dalle ottime firme che costellavano quelle pagine, e le quali ho ancora il piacere di seguire attraverso siti specializzati, podcast e live su Twitch. In quei giorni, mentre consultavo fedelmente il numero più recente, mi soffermai sulla recensione di “Metal Gear Solid: Snake Eater 3D”. Come sempre, la recensione era ben scritta, ricca di piccoli approfondimenti e dunque molto persuasiva nei miei confronti: e infatti riuscì a incuriosirmi nei confronti di una saga, quella di Snake, che ovviamente conoscevo ma che non avevo ancora toccato con mano.

La ragione di questa lacuna è presto detta: all’epoca evitavo il più possibile i giochi che non fossero cartooneschi, colorati, confortanti; e tutto sommato questo trend sopravvive ancora oggi, seppur con qualche eccezione in più. Ebbene sì, non sono mai stato un fanciullo attirato dal fascino proibito di GTA, seppur il mondo trasgressivo di Rockstar non mi fosse del tutto ignoto: avere un fratello maggiore mi permise di buttare un occhio su generi e titoli a cui non mi sarei mai avvicinato di mia spontanea volontà.

Ma torniamo a noi: quella recensione mi fece talmente venire l’acquolina in bocca (in particolare sulle meccaniche di sopravvivenza e mimetizzazione) che non solo riuscì a farmi avvicinare per la prima volta ad un gioco “18+”, non solo riuscì a farmi avvicinare ad una serie di cui sapevo solo il nome del protagonista (e per qualche ragione decisi di non sbirciare alcunché sull’universo di Metal Gear), ma riuscì addirittura a farmi fiondare al GameStop per prenderlo al “day one”, cosa non particolarmente frequente nel mio vissuto da appassionato. Se non erro era precisamente l’8 Marzo del 2012. Ah, dimenticavo: oltre all’ottima recensione di NRU, molto importante fu anche la demo messa a disposizione sul Nintendo eShop, che permetteva di giocare alla primissima fase di gioco del titolo: questa piccola versione di prova confermò le impressioni che mi ero fatto dalle pagine della rivista e fu pressoché amore a prima vista. Non so quante volte ho rigiocato quella sequenza (ossia la “Missione Virtuosa”) nell’attesa di mettere le mani sul gioco completo. Le meccaniche stealth, la possibilità di approcciare le situazioni in maniere differenti (usare il CQC? O i tranquillanti dalla distanza? E se colpissi quell’alveare?), le conversazioni via Codec: mi si parò davanti una serie di elementi ludici per me più o meno inediti, che mi intrigò di brutto… E non avevo ancora visto nulla.

(Ammetto di non aver detto effettivamente il vero, affermando di non aver mai avuto a che fare con Metal Gear Solid: avevo anzi avuto un piccolo, esilarante contatto con una gran bella parodia, intitolata “Mesal Gear Solid” e contenuta in Ape Escape 3, altro gioco che amo alla follia e di cui forse tornerò a parlare da queste parti. Ad ogni modo, in Mesal Gear Solid si impersonava Pipo Snake, scimmia agghindata proprio come Solid Snake che doveva farsi strada per una manciata di livelli per salvare il vero protagonista della saga di Hideo Kojima. Solo vari anni dopo, quando appunto avrei messo le mani sulla serie vera e propria, mi sarei reso conto di quanto quella parodia fosse effettivamente un buon incrocio, seppur ovviamente molto snellito, tra il gameplay di Metal Gear Solid (il primo) e quello di Metal Gear Solid 3. Quindi mi correggo: non giunsi effettivamente del tutto impreparato nella foresta di Tselinoyarsk.)

Un’introduzione tanto lunga quanto d’impatto.

Prima di proseguire, qualche indicazione per chi non sapesse di cosa io stia parlando: “Metal Gear Solid: Snake Eater 3D” è una riedizione per Nintendo 3DS, con un paio di funzioni esclusive, di “Metal Gear Solid 3: Snake Eater”. Il gioco originale uscì su PlayStation 2, console su cui giunse anche una versione migliorata dello stesso titolo, chiamata “Metal Gear Solid 3: Subsistence”. Senza che io ne fossi a conoscenza, scelsi di entrare nella saga di Metal Gear dal capitolo più adatto, in quanto si tratta del prequel dell’intera saga. Ovviamente se si ha già avuto esperienza dei capitoli precedenti (inclusi i due capostipiti su MSX) si comprende meglio quello che si sta guardando, nonché i numerosissimi riferimenti più o meno importanti a quanto si sarebbe svolto nel futuro della timeline della serie; tuttavia proprio la sua natura di prequel, di tabula rasa, ha reso l’esperienza godibilissima e forse ancora più emozionante per un neofita come me. In generale, consiglio questo titolo come primo approccio alla saga anche perché esso risulta tutto sommato come una storia autoconclusiva, la cui conclusione può lasciare tranquillamente soddisfatti se non si ha intenzione di curiosare ulteriormente nella vicende di Solid Snake, Big Boss, Enfants Terribles e compagnia bella.

Torniamo proprio alla sopra citata foresta di Tselinoyarsk: una delle cose che ricordo con più affetto dell’esperienza ludica con MGS3D è senza dubbio l’immersione nella zona boschiva dell’Unione Sovietica, da vivere senza dubbio in cuffia. I suoni degli uccelli, il fruscio dell’erba mentre si striscia tra le fronde, lo scrosciare dell’acqua nelle zone paludose: non è necessario alcuna traccia musicale per accompagnare le “passeggiate” di Naked Snake, la natura circostante fa già tutto da sé, non lasciando mai la sensazione di un silenzio ingombrante e fastidioso. Anzi, questa scelta si adatta benissimo con la missione di Snake: l’inflitrazione quanto più silenziosa possibile, il passare inosservati, dunque l’immersione totale nella natura, il divenire serpente tra i serpenti, silenzioso e letale. E infatti la musica arriva, forsennata e martellante, quando si viene avvistati e si è costretti a nascondersi o passare all’attacco: la fusione con la natura non è riuscita, bentornato nel mondo degli umani e delle pallottole.

Anche l’alternanza degli ambienti è magistrale e non fa mai sorgere la sensazione di ripetitività: sebbene gran parte della vicenda si svolga in scenari boschivi, le traversate tra alberi e paludi sono intervallate da passaggi tra grotte, depositi, strutture militari, nonché dalle indimenticabili battaglie con i boss, ossia i pazzeschi componenti dell’Unità Cobra. Anche qui Hideo Kojima ha fatto il capolavoro: basta citare l’assurdo scontro con The End, una delle cose più belle di cui ho fatto esperienza in ormai vari anni di passione per i videogiochi. Ammetto di non aver mai sperimentato il “metodo facile” per battere The End, ossia il lasciare il gioco in sospeso per una settimana. Una volta riavviata la partita, si ritroverà The End morto… di vecchiaia. Questo mi fornisce l’assist per tessere un piccolo elogio del genio di Hideo Kojima.

Uno dei momenti più indimenticabili del gioco. Chi sa, sarà sicuramente d’accordo. Chi non sa… Non aggiungo altro.

Hideo Kojima, creatore e director della saga di Metal Gear, nonché produttore della serie “Zone of The Enders” e director del recente “Death Stranding”, viene spesso accusato di non fare “giochi”, ma di fare quasi film interattivi, infarciti di lunghissimi filmati intervallati da sporadici momenti di gameplay. In tal senso l’esempio più lampante è rappresentato da “Metal Gear Solid 4: Guns of The Patriots”, in cui davvero il rapporto tra cutscenes e gameplay è effettivamente sproporzionato. Tuttavia, in linea generale, dissento fortemente da questo luogo comune sulla figura del game designer nipponico. Ritengo invece che Kojima sia un grande creatore di giochi, oltre che di “esperienze cinematografiche-videoludiche”. Quando non si assiste ai filmati (che presentano comunque una regia pazzesca, e anche sotto questo aspetto MGS4 fa scuola) e Kojima ci piazza in mano il gioco vero e proprio, si ha a che fare con delle meccaniche “ludiche” in tutto e per tutto: difficilmente si hanno eventi scriptati, tutto è nelle mani del giocatore, che può scegliere di usare “la scatola dei giocattoli” fornitagli come gli pare e piace. Non si tratta di quick time event o simili: i momenti cinematografici e quelli ludici spesso ben distinti, e francamente un Metal Gear Solid mi sembra mille volte più “gioco” di un Uncharted. In questo senso Kojima ha raggiunto il suo apice con “Metal Gear Solid V: The Phantom Pain”, titolo ben lungi dalla perfezione ma che lascia al giocatore una libertà notevole nel divertirsi col suo “giocattolo”, ossia con le meccaniche e gli elementi messi a disposizione dal gioco.

Nel caso di Metal Gear Solid 3, i momenti in cui i filmati si fanno interattivi rappresentano ben più di un tasto da dover premere al momento giusto. L’esempio per eccellenza è rappresentato da uno degli ultimissimi momenti in cui dobbiamo pigiare qualche tasto, ossia la morte di The Boss. Kojima rende quel momento tanto cruciale per l’intero arco narrativo della saga ancora più gravoso ed emozionante: nel momento dello spannung, della massima tensione, la cutscene si ferma e deve essere il giocatore a premere il grilletto, altrimenti non si procede. Il giocatore si assume tutta la responsabilità di quel gesto. Per quanto mi riguarda, la prima volta che mi sono trovato dinanzi a questo momento credo di aver atteso almeno un minuto intero, prima di decidermi a sparare… Eppure ne avevo uccisa di gente, fino a quel momento: anonimi soldati, che non ero riuscito ad aggirare o a tramortire, su cui non mi ero fatto troppi problemi nel mandarli all’altro mondo. Qui invece si tratta di un personaggio fondamentale, che hai avuto modo di conoscere a fondo nel suo fantastico rapporto col protagonista, e Kojima ti fa avvertire tutto il peso della responsabilità, tutta la gravità insita in un uccisione. “It’s a hell of a thing, killing a man”, diceva Clint Eastwood ne “Gli Spietati”. Quindi con un colpo da maestro Kojima non solo crea un’impressionante immedesimazione con Snake, ma comunica ancora una volta quello che è il filo conduttore della serie: Metal Gear è una saga che parla continuamente di guerra e violenza ma che non si sogna neanche per un minuto di tessere l’elogio di quest’ultime, è un’epopea in cui la violenza uccide non solo i corpi ma anche le anime, e Naked Snake ne sa qualcosa.

Quando mi si presentarono dinanzi agli occhi i titoli di coda, piansi. Pochissimi giochi mi hanno suscitato una reazione del genere. Mi intrippai di brutto e recuperai subito la “Metal Gear Solid HD Collection” per PS3, ho comprato The Phantom Pain al day one e ho poi recuperato Metal Gear Solid 4. Ironicamente, l’unico capitolo che non ho ancora mai toccato (escludendo i due episodi per MSX) è proprio il primo: prima o poi colmerò la lacuna, giuro. Eppure per diversi anni mi sono poi chiesto se quelle emozioni fossero soprattutto frutto delle idiosincrasie adolescenziali, oppure se, come spesso accade, il ricordo abbia preso il sopravvento su quella che fu l’esperienza reale. Ho dunque approfittato dei primi giorni del lockdown della scorsa primavera per rimettere mano, dopo otto anni esatti, all’avventura di Naked Snake in terra sovietica. Ebbene, ho potuto dare ragione al me stesso del passato. Naturalmente è stata dura riabituarsi ai controlli di questa versione portatile: MGS3D è stato uno dei pochi titoli per 3DS a giovare effettivamente del circle pad aggiuntivo che poteva essere implementato attraverso un (alquanto ingombrante) “add-on” venduta separatamente, e denominato “Circle Pad Pro”. Sia nel 2012 che nel 2020 mi sono rifiutato categoricamente di sborsare altri denari per quell’accrocchio e mi sono dunque adattato agli scomoducci pulsanti frontali (A/B/X/Y) utilizzati per gestire la telecamera e la mira in prima persona. Ciononostante, superato questo scoglio anti-ergonomico mi sono ritrovato dinanzi lo stesso capolavoro esperito qualche anno prima, stavolta arricchito da una più completa conoscenza dell’universo e della storia di Metal Gear, che mi ha consentito di comprendere meglio diversi dialoghi e di attribuire ancora più rilevanza emotivi a degli snodi narrativi fondamentali. La scorsa primavera ho potuto quindi finalmente rispondere alla domanda che mi sono portato dietro per un bel po’: sì, Metal Gear Solid 3 è il mio gioco preferito di sempre.

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